Quale politica dopo il Covid-19?

Quando si comincia a governare diventa inevitabile confrontarsi con un valore tipicamente umano: il senso di responsabilità. Sentire di appartenere alla comunità è determinante e può spingere un amministratore a dirci che «se si vogliono realizzare progetti coraggiosi e impegnativi non si può rimanere isolati». Citiamo Luigi de Magistris, naturalmente. Ma vogliamo fare il paio con un’altra affermazione di un politico che più di chiunque altro è riuscito a far percepire a tutti, indistintamente, l’importanza dell’etica nelle persone delle istituzioni. Ci riferiamo a Sandro Pertini che soleva dire che «la moralità dell’uomo politico consiste nell’esercitare il potere che gli è stato affidato al fine di perseguire il bene comune». Valori e principi diventano, quindi, il banco di prova dell’attività politica. Un mondo, quello politico, che oggi tutti ammettono sia in crisi come, del resto, la nostra società ormai globalizzata.

La pandemia di Covid-19 ha messo impietosamente a nudo la crisi del modello economico imperante, palesemente incapace di affrontare quelle crisi che, ormai, sempre più spesso saranno mondiali. Il profitto come unico fine inevitabilmente genera un aumento delle disuguaglianze e molte ricerche internazionali ormai lo hanno verificato. Ma su quale società ha impattato quest’ultima crisi?

Il pensiero occidentale, nel corso degli ultimi secoli, è penetrato nelle società di tutto il mondo. Sarebbe difficile e lungo descrivere tutti i valori che lo fondano, però accenneremo solo ad alcuni che sembrano i più importanti. Il primo è nel valore della persona, quindi nei suoi diritti e nella sua dignità, nella sua libertà e nei suoi doveri. Il secondo è nella progressiva finanziarizzazione dell’economia che non tende più alla produzione di risorse attraverso il lavoro, commercio e servizi, ma attraverso le rendite che consentono le ricchezze. Questa trend ha portato ad uno smantellamento del mondo del lavoro arrivando a precarizzare di fatto tutti i lavoratori. Il terzo è quella riassunta sbrigativamente nel termine globalizzazione. Tutto è diventato più a portata di mano, facilmente raggiungibile. La facilità di movimento ha avvicinato persone e comunità, generando flussi incessanti di umanità in tempi una volta impensabili, con fenomeni che vanno dalle mescolanze dell’Erasmus a quelle dell’immigrazione. Il quarto è figlio della rivoluzione tecnologica dell’informatica che ha progressivamente modificato i flussi di informazione che le persone utilizzavano per comprendere il mondo in cui vivevano. Il quinto, e forse il più importante, è l’ambiente col disastro che stiamo perpetrando. Consumiamo spasmodicamente alla ricerca di un benessere fatto di “cose”. Ma, soprattutto, consumiamo il mondo che ci contiene, spinti da una smania di profitto che non potrà mai generare soddisfazione. Ci sarà sempre qualche altra cosa da desiderare.

È su questo smottamento sociale che si è abbattuto il fenomeno Covid-19. Lo globalizzazione ha consentito in sole quattro settimane la diffusione mondiale di un virus che cinquant’anni fa avrebbe impiegato due anni per arrivare dall’Asia all’Europa. Il tempo di reazione di chi governa si è drasticamente ridotto e diventa sempre più difficile mascherare errori e inefficienze.

La popolazione è sempre più disorientata perché, quella crisi che ha modellato la classe politica, ha avuto gli stessi effetti sull’interno complesso dei media che sembrano occupati solo a generare ancor più paura. Le “infodemie” ricorrenti, più che informare, ottengono l’effetto di distorcere la percezione della realtà, soffiando sull’ansia e la sfiducia, spingendo le persone meno solide a cercare rassicurazioni in uomini e proposte “forti”. Si sa, invece, che la fiducia permette la cooperazione e la confidenza con persone estranee al cerchio ristretto della propria famiglia, del proprio ristretto gruppo o della categoria ideologica a cui si pensa di appartenere.

È proprio la pandemia di Covid-19 che ci ha permesso di vedere che le persone conoscono perfettamente il valore della condivisione dei valori e della cooperazione. Con le persone bloccate in casa dal lockdown, ecco che la donazione di denaro diventa l’atto di solidarietà più semplice e lo testimoniano le centinaia di milioni di euro raccolti.

La cooperazione e l’empatia, però, hanno il vantaggio di aumentare il senso di fiducia e questa è un elemento essenziale di facilitazione dello sviluppo sociale ed economico. Non solo. La fiducia rende accessibile quel senso di benessere e soddisfazione che è l’inverso del consumismo di un certo capitalismo neoliberista.

Penso, quindi, ad un mondo della scuola in cui la cooperazione venga prima del rendimento, ovvero in cui non serve bocciare ma serve far recuperare a chi fa più fatica, perché non siamo tutti uguali e tutti potremo essere utili alla comunità. Penso a forme di aiuto per le persone affinché possano affrontare efficacemente la burocrazia perché lo Stato non venga percepito come un nemico. Potrebbe essere una versione riconosciuta e potenziata del Difensore Civico magari di quartiere. Penso ad un mondo del lavoro che possa conservare e perpetuare nel tempo i saperi così da far diffondere fiducia e benessere, in una formazione generazionale in cui l’esperienza si sedimenti nella cultura. Penso ad un mondo in cui si attenuino le disuguaglianze, impiegando il danaro pubblico per redistribuire la ricchezza attraverso il lavoro. Penso a dei luoghi fisici in cui incontrarsi e “agire” la propria condivisione, in una casa comune in cui potersi riconoscere ed aiutare. Lo erano un tempo del Case del Popolo, lo sono ancora le parrocchie.

In fondo, per essere rivoluzionari è necessario essere conservatori. È tutto scritto nella nostra Costituzione. Questa è la sfida della politica dopo il Covid-19.

di Stefano Paolillo per DemA