L’inadeguatezza di un tornello per una biblioteca

Ci sono notizie che irrompono nella quotidianità e suscitano una sensazione di incredulità e sconcerto simile, anche se incomparabile per gravità e dimensione, a quella che Hannah Arendt definiva la banalità del male. Mi riferisco alla decisione di apporre i tornelli all’ingresso della biblioteca di studi umanistici dell’università di Bologna in via Zamboni 36. Meno di una settimana fa ero lì, sotto i portici che si diramano da Piazza Verdi, in compagnia di circa duemila donne venute da tutta Italia per costruire insieme un grande movimento contro la violenza e le discriminazioni, e questa marea festosa e colorata invadeva le strade della cittadella universitaria nel cuore di Bologna, e tuttavia protetta dal traffico e dai rumori, dove è ancora possibile assaporare il piacere della ricerca e dello studio. Adesso quelle strade e quei portici sono invase dal fumo dei lacrimogeni, da poliziotti in assetto antisommossa e da manifestanti che difendono un luogo simbolo di libertà dei saperi.

 L’Alma Mater Studiorum è la più antica università d’Europa e accoglie moltissimi studenti e studentesse fuori sede soprattutto dal Meridione, ragazzi e ragazze che vivono la biblioteca a tempo pieno per studiare, scrivere la tesi e per conoscersi. Un luogo di cultura e di libertà di pensiero, pubblico e aperto a tutti, come lo è per tutte le biblioteche universitarie d’Europa. In Germania molte biblioteche sono aperte fino all’una di notte e l’accesso è libero, in Inghilterra da alcuni anni hanno introdotto i metal detector per impedire il furto dei libri contrassegnati da un chip, ma l’accesso è libero per tutti anche non iscritti all’università.

Allora perché i tornelli come allo stadio? Se la motivazione fosse quella, che leggo dai giornali, di impedire lo spaccio all’interno della biblioteca, i tornelli sono del tutto inadeguati, a meno che, con questa scusa, non si voglia coprire l’esercizio di un sempre maggiore controllo sociale sul corpo studentesco. Corpo su cui in questi anni si è abbattuto il progressivo smantellamento del diritto allo studio, garantito dalla Costituzione, ma tradito nei fatti con la drastica riduzione dei finanziamenti alle Università, soprattutto quelle meridionali.

 S’impone un’altra domanda. Che cosa stanno difendendo gli studenti e le studentesse che hanno occupato la biblioteca? A che cosa si oppongono con tanta tenacia da continuare ancora in queste ore a lottare per difendere quello spazio?

In un corso tenuto al College de France dal 1971 al 1984 dal titolo “Bisogna difendere la società” Michel Foucault individua nel biopotere un passaggio fondamentale dalla società disciplinare alla società di controllo, che non esercita più il potere sulla vita del singolo, ma sulla popolazione attraverso un controllo che impone standard valutativi a cui adeguarsi e criteri di selezioni a cui uniformarsi in quanto prodotti.

«Difatti, a differenza di quanto avviene nelle discipline, non abbiamo qui a che fare con un addestramento individuale operato tramite un lavoro effettuato sul corpo in quanto tale. Non si tratta assolutamente, insomma, di investire un corpo individuale, come accade nella disciplina. Non si tratta, di conseguenza, di prendere l’individuo al livello del dettaglio. Si tratta, al contrario di agire, per mezzo di meccanismi globali, in modo da ottenere degli stati complessivi di riequilibrio, di regolarità. In sostanza, il problema diventa quello di prendere in gestione la vita, i processi biologici dell’uomo-specie, e di assicurare su di essi non tanto una disciplina, quanto piuttosto una regolazione.» (pp. 212–213)

Come non leggere in queste righe quanto è accaduto nell’Università italiana in un processo durato più di vent’anni e che trova il suo compimento nella fine delle discipline sostituite dal valore dei crediti e nelle forme di valutazione astratte che regolano i passaggi. Un’università incorporea dove docenti, studenti e studentesse sono sottoposti a una costante valutazione, non per quello che pensano e sanno, ma per gli standard di produttività.

Forse il valore simbolico e reale di quella biblioteca così strenuamente difesa sta nel suo essere ancora uno spazio di relazione, di confronto, di pensiero critico, dove parlarsi, incontrarsi, cercare insieme il coraggio per credere che ha ancora un senso studiare, leggere libri, progettare un futuro, malgrado tutto.

Simona Marino

Coordinamento demA